15 Settembre 2009, h. 00:00

Studi di settore, realtà o visione distorta della realtà?

A dieci anni dalla loro introduzione fanno ancora discutere. Tra chi fa impresa, ma non solo, c’è chi sostiene che la realtà economica da essi descritta è imprecisa e distorta, giungendo alla conclusione che sarebbe meglio buttarli a mare. Visione opposta è quella di chi li ha pensati e ne ha accompagnato la crescita che li difende strenuamente sostenendo che sono uno strumento che offre equità e trasparenza nel rapporto tra fisco e imprese. E poi, rimarcano ancora questi ultimi, visti i numeri in gioco (oltre quattro milioni di contribuenti) occorrono sì strumenti di analisi raffinati, ma comunque di massa. A dieci anni dalla loro applicazione, e a un anno dall’inizio della crisi planetaria che ha colpito anche l’Italia, il Presidente della SoSe (Società per gli Studi di Settore) Giampiero Brunello ha tracciato un primo bilancio degli Studi di settore. Sullo sfondo la domanda: sono ancora utili? Non è la prima volta che la Summer School di Confartigianato si occupa di Studi di Settore. Per la precisione è la terza: un’attenzione necessaria vista la centralità dell’argomento nella vita delle imprese e nell’attività Confederale. I numeri presentati dal Presidente della SoSe indicano che dal 1998, primo anno di applicazione degli Studi, è in atto una progressiva e graduale emersione di base imponibile (variabile tra i diversi settori economici). Tra il 1995 e il 2007 la SoSe ha stimato che il volume di affari verosimilmente non dichiarati di alcuni settori rappresentativi del comparto del commercio e dei servizi è sceso dal 42,5% al 14,9%. Tradotto in cifre, milioni di euro. Eppure il “mercato – ha osservato Brunello – non è stato sconvolto” dalla velocità con cui si è invertita la curva dell’evasione fiscale: la filosofia che sottende allo strumento è proprio quella, infatti, di salvaguardare il “rispetto del principio di equità e di capacità contributiva”. Tradotto in soldoni, di far pagare a tutti il giusto, niente di più. Lo strumento, ha poi sottolineato Giampiero Brunello, concorrendo all’emersione di quote rilevati di economia sommersa, ha posto un argine ad una distorsione del nostro mercato che frena la libera concorrenza tra i vari soggetti economici che operano nel Paese. “Tra i vari obiettivi che ci si è posti di raggiungere attraverso gli Studi, c’è quello di evitare l’impiego del risparmio fiscale (Ndr.: leggi ‘evasione’) per fare leva sul mercato”. Un esempio: “Abbiamo stimato che il livello della pressione fiscale e contributiva, con riferimento al 2006, per i soggetti non cogrui o normali è stata di circa il 33,3%, mentre per quelli congrui e normali del 47,8%. Una differenza che “fa la differenza” in termini competitivi. Ci sono diversità ancora troppo grandi nelle dichiarazioni tra chi è congruo e chi non si dichiara tale”. Il dialogo con le Associazioni di Categoria, la ‘compliance’, resta essenziale per migliorare i dettagli della fotografia scattata dagli Studi. Lo si è visto in particolare nell’attuale fase di crisi economica. “In pochi mesi abbiamo ottenuto grandi risultati. Abbiamo esaminato una grande quantità di dati delle Associazioni, Inail, Inps, Istat e su questa base abbiamo fatto degli interventi correttivi che hanno riguardato oltre due milioni di contribuenti”. In conclusione di intervento, il Presidente della SoSe ha invitato a “pensarci bene prima di proporre di gettare via lo strumento”, con riferimento alla proposta che da più parti periodicamente riemerge. “Altre soluzioni – ha proseguito – rischiano di parlare un linguaggio diverso da quello delle imprese”. Ma i risultati positivi per fare emergere l’economia in nero, non sono stati ottenuti solo grazie all’applicazione degli Studi. Senza la macchina dei controlli, infatti, buona parte degli sforzi sarebbero risultati vani. Controlli di nuova generazione. Da esperire “in modo giusto, ragionevole, equilibrato”. Lo ha detto Luigi Magistro, Direttore Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate, presentando alla Summer School le nuove strategie dell’attività di controllo. Il principio generale di quello che si annuncia come un nuovo corso è semplice ma allo stesso tempo rivoluzionario, almeno per il nostro Paese: “i controlli devono riguardare tutti e non solo alcuni”. Devono riguardare le grandi imprese (su cui quest’anno l’Agenzia ha concentrato l’attenzione), le piccole imprese (finalizzati alla prevenzione: “meglio prevenire che curare” ha spiegato Magistro), e tutti quei soggetti che hanno un tenore di vita non in linea con le dichiarazioni reddituali (per questi viene rispolverato il redditometro). “In un Paese civile non è possibile denunciare determinate posizioni reddituali. Non è possibile vista l’efficacia della macchina del Fisco. Non servono nuove leggi, comunicazioni, altra burocrazia. Abbiamo dati in abbondanza da usare nel modo giusto”. “Compliance” è la parola d’ordine del Direttore dell’Accertamento delle Entrate nei rapporti con le Associazioni (“che devono aiutarci a capire, a non sbagliare”), e dei soggetti economici (“il male si chiama ‘evasione’. Negli ultimi anni la situazione è migliorata, ma la nostra azione è mirata a far crescere spontaneamente i numeri. Vogliamo far capire che l’attività di controllo c’è e che è che meglio cambiare atteggiamento”). Gli Studi di Settore, per Magistro, rappresentano una “bussola” nell’attività di controllo, “ci danno l’orientamento, le probabilità. Ma danno solo un primo quadro che va completato con ulteriori elementi, con ulteriori analisi. L‘applicazione degli Sudi di settore automatica e acritica non va bene”. Questo avviene in Italia. Ma all’estero? Poniamo in Francia, quali sono gli strumenti di equità fiscale utilizzati? Esistono gli Studi di Settore? E i controlli su quali soggetti si concentrano? A queste domande ha risposto l’Attachée Fiscale presso l’Ambasciata di Francia in Italia, Anne-Claire Jarry-Bouabid, ospite della Summer School. La diplomatica ha subito messo le mani avanti, sottolineando che la struttura economica dei due Paesi è difficilmente confrontabile: “In Francia il numero di piccole imprese è di gran lunga inferiore a quello italiano, perciò non c’è niente di strano se storicamente i controlli da noi si concentrano nelle grandi imprese”. Poco significative le differenze nella macchina delle verifiche, affidata alla Direzione Generale Finanze Pubbliche, alle Dogane e ad una struttura simile per competenze all’Inps. Almeno nominalmente non esistono gli Studi di settore, anche se in pratica c’è uno strumento analogo: “Abbiamo delle schede tecniche per i settori economici e un software per la verifica della congruità. I risultati non costituiscono una prova, ma servono per orientare i controlli”. Il redditometro esiste, “ma non lo utilizziamo molto, preferiamo i controlli in azienda e il dialogo con i contribuenti”. In sostanza in Francia i metodi presuntivi o deduttivi automatici sono quasi assenti. Unica eccezione il calcolo dei redditi presunti, quando la contabilità di un’impresa non è disponibile. “Ma è di difficile utilizzazione” spiega Anne-Claire Jarry-Bouabid. A differenza dell’Italia i controllori non si annunciano al contribuente suonando il campanello, ma sono tenuti a inviare con 15 giorni di anticipo un avviso. Le differenze sono anche altre, ma una in particolare ha suscitato mormorii in platea. Per creare un’impresa è sufficiente recarsi presso la Camera di Commercio o dell’Artigianato. “Qui viene attribuito un numero identificativo della società, che non è un codice fiscale perché non c’è un anagrafe tributaria. Poi un’iniziativa che stiamo lanciando. Attraverso un sito Web, dipendenti, pensionati, e chi ha un’idea da sviluppare può creare un’impresa in 15 minuti”. La tassazione? “13% per ricavi fino a 80.000 euro”.

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