La certificazione di filiera sia vero strumento di legalità, equità e valorizzazione moda made in Italy
Il Made in Italy attraversa oggi una fase cruciale che impone un intervento deciso e strutturale. La credibilità del nostro sistema produttivo è sottoposta a un processo di progressivo screditamento, alimentato anche da pratiche commerciali opache e dalla delocalizzazione mascherata E soprattutto dagli effetti mediatici scaturiti dai recenti fatti di cronaca recentemente accaduti in alcune aziende portabandiera del made in Italy.
Si è venuto a creare un paradosso che non possiamo più ignorare: mentre i nostri prodotti tradizionali, frutto di saperi artigianali tramandati da generazioni, faticano a essere riconosciuti e valorizzati, il settore del fast fashion ha costruito un’identità commerciale immediata e globalmente riconoscibile. Questa inversione di percezione rappresenta non solo una distorsione di mercato, ma una ferita all’identità manifatturiera del nostro Paese.
Restituire identità distintiva ai prodotti italiani non è una questione di marketing, ma una necessità strategica per la tenuta del nostro tessuto economico e sociale. Significa tutelare le comunità produttive, garantire occupazione qualificata, preservare competenze uniche e assicurare che il valore generato dalle nostre imprese resti ancorato ai territori.
Tutto questo può avvenire solo se si interviene con strumenti normativi efficaci, capaci di garantire trasparenza, legalità ed equità lungo l’intera filiera produttiva. Solo se si supera la logica della certificazione formale per abbracciare un sistema di responsabilità condivisa. Solo se si riconosce che il Made in Italy non è un’etichetta da apporre a un prodotto finito, ma il risultato di una catena di valore in cui ogni anello – dalle micro imprese artigiane ai grandi marchi – deve operare nel rispetto di regole chiare e vincolanti.
Confartigianato Moda e Cna Federmoda accolgono con favore l’introduzione della “Certificazione unica di conformità delle filiere della moda” come strumento per promuovere legalità, trasparenza e tracciabilità nei processi produttivi. Dopo un lungo e approfondito lavoro di confronto con le istituzioni, le Associazioni riconoscono il risultato ottenuto e auspicano che nei prossimi giorni si tenga conto delle ulteriori proposte di modifica presentate al Governo come fatto relativamente alla necessità di mantenimento del carattere volontario della certificazione, elemento fondamentale emerso dal nostro contributo al dibattito.
Tuttavia, è necessario affermare con chiarezza che la certificazione deve valorizzare l’intera filiera produttiva e non solo il marchio e il prodotto finale. Come ribadito anche in occasione della firma con riserva del Protocollo Moda presso la Prefettura di Milano, trascurando chi genera il vero valore aggiunto: le imprese artigiane e manifatturiere che costituiscono il cuore pulsante del Made in Italy.
Le micro e piccole imprese non sono soggetti marginali, ma pilastri della manifattura italiana, integrati stabilmente nelle catene produttive dei grandi marchi. Sono queste imprese a garantire qualità, occupazione e valore economico sui territori, pur operando spesso in condizioni contrattuali squilibrate e con margini ridotti.
La certificazione può trasformarsi in strumento davvero efficace solo se inserita in un quadro di riforma complessiva fondato su principi chiari e non negoziabili.
È indispensabile che la certificazione renda trasparente l’intera capacità produttiva della filiera, valorizzando le competenze e le risorse reali delle imprese artigiane, non limitandosi a verifiche formali sulla conformità di processo.
La certificazione deve garantire la tracciabilità completa di ogni fase produttiva e di ogni soggetto coinvolto nella filiera, superando le attuali asimmetrie informative e assicurando visibilità a tutti gli attori, dai subfornitori ai committenti.
Accanto alla certificazione, deve emergere il principio dell’equa remunerazione.
Per rendere il processo realmente sostenibile, la certificazione deve tenere conto degli audit e delle certificazioni già in essere presso le imprese. È necessaria una standardizzazione degli audit in generale, evitando duplicazioni e sovrapposizioni con le verifiche già effettuate dai brand committenti. Le micro e piccole imprese di filiera sono già sottoposte a numerose richieste documentali e verifiche da parte dei capofiliera: queste attività devono essere integrate e riconosciute nel nuovo sistema certificativo.
Per questo, la certificazione deve essere affidata a Organismi di certificazione “accreditati”, , garantendo indipendenza, competenza e uniformità di valutazione sulla base degli standard internazionali. Solo così si può evitare il rischio di conflitti di interesse e garantire credibilità al sistema.
Non vogliamo che la certificazione sia solo burocrazia, ma uno strumento concreto di valorizzazione del comparto e della filiera tutta. Per questo è fondamentale affrontare il vero nodo della legalità: la mancanza di giustizia contrattuale.
Oggi le relazioni tra committenti e subfornitori si fondano su capitolati e codici etici non contrattualizzati, privi di tutele effettive. Persiste l’assenza di una disciplina contrattuale chiara e vincolante tra i soggetti di filiera. È invece urgente richiamare e applicare la Legge 192/1998 sulla subfornitura, che stabilisce principi di chiarezza e determinatezza dei corrispettivi, a tutela della parte più debole della filiera.
Le imprese committenti, spesso multinazionali o grandi gruppi, continuano a sottrarsi a qualsiasi responsabilità sulle condizioni di lavoro e sui tempi e costi imposti ai subfornitori. La persistenza di tali squilibri rischia di spostare il peso della legalità esclusivamente sulle piccole imprese manifatturiere, creando un sistema di doppio controllo – pubblico e privato – che moltiplica gli adempimenti per chi già opera nel rispetto delle norme fiscali, previdenziali e giuslavoristiche, senza colpire le sacche di irregolarità.
La certificazione può generare effetti positivi significativi nel contrasto alla concorrenza sleale interna, contribuendo a emarginare ulteriormente chi opera nell’illegalità e comprime il mercato con pratiche scorrette. Tuttavia, anche lo Stato deve fare la sua parte: sono necessari controlli pubblici mirati, adeguati e rafforzati, che affianchino il sistema certificativo e colpiscano realmente le irregolarità.
Confartigianato Moda e Cna Federmoda auspicano che nel percorso che il provvedimento dovrà svolgere alla Camera a seguito dell’approvazione al Senato, nel continuare a sostenere un percorso di legalità vera, costruita su basi di giustizia contrattuale, rispetto reciproco e valorizzazione delle competenze artigiane e manifatturiere italiane, vengano accolte le seguenti proposte:
- Applicazione piena della Legge 192/1998, vincolando i committenti al rispetto di contratti chiari, con prezzi equi e tempi di pagamento certi;
- Corresponsabilità della società capofila, con obblighi di trasparenza e di sostegno economico ai costi di certificazione della filiera;
- Criteri proporzionati per le PMI, graduando adempimenti e costi in base alla dimensione e alla complessità organizzativa;
- Riconoscimento e integrazione delle certificazioni esistenti, evitando sovrapposizioni con piattaforme e banche dati già attive, assicurando l’interoperabilità e la condivisione delle informazioni tra istituzioni e soggetti privati;
- Sistema di vantaggio per chi pratica prezzi equi, riconoscendo semplificazioni e benefici certificativi ai committenti che garantiscono adeguata remunerazione ai fornitori;
- Istituzione di un tavolo tecnico permanente, con il coinvolgimento delle associazioni di categoria, per definire un modello di certificazione realmente utile, condiviso e in continua evoluzione.
Solo attraverso queste misure la certificazione potrà diventare uno strumento di valorizzazione autentica della filiera, non un ulteriore peso burocratico, e potrà tutelare davvero chi il Made in Italy lo produce ogni giorno con competenza, passione e rispetto delle regole.
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