28 Settembre 2007, h. 00:00

Sul ‘made in China’ l’Europa al giro di boa

Se un’azienda italiana esporta i suoi prodotti in Cina, Giappone, Stati Uniti, è obbligata ad apporre il marchio d’origine. Se invece è un’azienda di quei paesi ad esportare in Europa, allora il marchio non serve. Questa in estrema sintesi il cuore del problema alla base del pressing del ministro italiano del Commercio Internazionale e delle Politiche europee Emma Bonino, per accelerare i tempi di approvazione del regolamento comunitario sul marchio d’origine obbligatorio per i prodotti importati in Europa, il cosiddetto “Made-in”, da tempo bloccato sul tavolo del Consiglio dei ministri dei ventisette. Che l’iter di approvazione del regolamento sia fermo da troppo tempo, e che l’azione italiana stia ottenendo ottimi risultati, lo conferma l’Assemblea di Strasburgo che ha sollecitato il Consiglio dell’Unione Europea ad “adottare senza indugio” la proposta di regolamento nell’ambito di una risoluzione sulla sicurezza dei prodotti commercializzati in Europa. “E’ da tempo che siamo impegnati perché l’Europa adotti il nuovo regolamento sul marchio di origine, ovvero l’obbligo di indicazione del paese di produzione per i prodotti importati che appartengono a sette settori merceologici: tessile e abbigliamento, gioielleria, oggetti di ceramica e vetro, scarpe, cuoio, articoli di cuoio e pellicce, mobili e spazzole. Il marchio è uno strumento importante per i consumatori, li aiuta a orientarsi tra i prodotti, a scegliere consapevolmente. Non è assolutamente uno strumento per ‘proteggere’ il mercato dell’Unione Europea, rendendolo impermeabile alle importazioni”. Stefano Acerbi, presidente di Confartigianato Federazione Moda, non nasconde una certa soddisfazione. Il lavoro è stato tanto, e il monito del Parlamento europeo al Consiglio, rimette nuovamente in moto una macchina che rischiava di spegnersi, soprattutto per l’opposizione di diversi paesi dell’Unione, che non condividono gli obiettivi della normativa, con il risultato di un Europa divisa in due sull’adozione dell’etichetta obbligatoria. Palesemente contrari gli stati del nord Europa (Irlanda, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Germania, Lettonia, Estonia, Svezia, Finlandia, nonché Repubblica Ceca, Austria e Slovenia), uno schieramento che rilette l’orientamento dominante nel settore europeo della distribuzione, che teme che i costi di marchiatura alzino i prezzi di vendita dei prodotti extra europei, e di quella parte dell’industria che ricorre alla delocalizzazione della produzione in paesi terzi. Assolutamente favorevoli tutti gli stati del blocco del Mediterraneo ad eccezione di Malta (Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Grecia e Cipro). A questi si aggiungono Ungheria, Polonia, Slovacchia e Lituania, mentre Bulgaria, Romania e Malta non hanno ancora fatto sapere la loro posizione. Dal dicembre del 2005, quando la Commissione Europea ha adottato il regolamento, fino a oggi, il fronte del no ha avuto la meglio e non ha consentito la formazione della maggioranza qualificata per sottoporre il “Made-in” all’esame del Consiglio Europeo. Ma adesso le cose sembrano andare in modo diverso. All’Europarlamento è in corso, infatti, una raccolta di firme trasversale a partiti e schieramenti, per una “dichiarazione” scritta che, se firmata dalla metà più uno degli eurodeputati (393), ha lo stesso valore di una risoluzione approvata dal plenum dell’Assemblea di Strasburgo. Il tempo stringe, perché il 13 dicembre scade il termine per sottoscrivere la dichiarazione. All’ultima rilevazione comunicata ne erano state raccolte 176, tra queste la firma del Presidente dell’Assemblea Hans-Gert Poettering.

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